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martedì 5 aprile 2011

Il Museo Ebraico fiorentino

Il Museo Ebraico

Il Museo Ebraico di Firenze è allestito su due piani all’interno del Tempio Israelitico. Gli arredi di culto provengono dalle due sinagoghe del Ghetto, la Scuola Italiana e la Scuola Levantina (frequentate dai diversi gruppi etnici che componevano la Comunità), dalle sinagoghe di Arezzo e Lippiano (comunità ormai estinte), dallo stesso Tempio Maggiore, per il quale furono eseguiti appositamente.

Il primo piano

Il museo vero e proprio consta di una prima sezione, che documenta la storia dell’insediamento ebraico fiorentino dalla nascita, nel 1437, al momento della fondazione del Ghetto, nel 1571, del suo ampliamento, nel 1704, fino alla demolizione, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, illustrata con fotografie di piante, immagini del Ghetto distrutto e delle antiche sinagoghe. Le ultime immagini llustrano le vicende della progettazione e della realizzazione del Tempio, nonché gli altri luoghi della Firenze ebraica, in particolare i due cimiteri ancora visitabili, quello in viale Ariosto, aperto dal 1777 ed esaurito nei primi anni del Novecento, quello di Rifredi, tuttora in uso.
È dedicato un breve spazio anche ad alcune illustri personalità, tra cui quella del cavalier David Levi, che lasciò il suo patrimonio per costruire l’edificio sinagogale, e quella di rav Shmuel Zvi Margulies, polacco di origine, una delle personalità religiose più significative tra quelle che guidarono la Comunità, fondatore e guida del Collegio rabbinico.
Nella seconda sezione della sala sono esposti gli arredi utilizzati durante le cerimonie sinagogali dello Shabbat e di alcune delle principali festività. Ampio spazio è dedicato agli ornamenti del SeferTorah, i rotoli in pergamena in cui è scritto in caratteri ebraici quadrati il Pentateuco.Gli arredi consistono in un hitul, ovvero una lunghissima fascia che tiene serrati i rotoli quando sono chiusi, un meil, ovvero un mantello che li copre, un paio di pinnacoli, rimmonim, che si inseriscono sui puntali dei bastoni, gli etz haim, una corona, atarah, che li circonda, e una placca appesa a lunghe catene, detta tas o siman, che serve ad indicare il numero di ordine del Sefer entro l’armadio, l’Aron ha- kodesh, in cui sono riposti. La Torah è, infatti, l’elemento focale del luogo di culto, il libro per eccellenza. Nella prima vetrina sulla sinistra (vetrina 1 S) sono esposti gli arredi che possiede ciascun ebreo che si reca in sinagoga: il manto rituale (tallit) e il libro per le preghiere (tefilloth). Non si conservano molti talledoth antichi, perché è consuetudine che gli uomini siano seppelliti avvolti nei manti; per questo motivo è di grande interesse, anche per motivi storici, quello appartenuto a Nello Rosselli e offerto dalla famiglia insieme alla borsa per contenerlo.
Oggetti legati alle confraternite che, sorte alla fondazione del Ghetto, hanno sempre avuto una funzione importante all’interno della collettività ebraica: chiavi, bossoli in ottone e cassettina in legno per la raccolta di denaro per i correligionari poveri. Nella vetrina centrale bassa (vetrina 2 C), è esposto un rotolo, della fine del secolo XVIII, non più utilizzabile, in quanto danneggiato dall’alluvione (secondo la legge ebraica, se una sola lettera non è completa il rotolo non può essere usato), circondato da tutti gli oggetti che lo ornano e da quelli che servono per la sua lettura. Accanto si può notare un finale di bastoni di legno, databile al XVIII secolo, proveniente da un altro Sefer alluvionato, sul quale si possono ancora notare le tracce del fango. Il Sefer è tenuto aperto da uno sharvit (letteralmente “scettro”) datato 1895, ovvero un bastone d’argento con due anelli alle estremità inseriti nei puntali di legno, che serve per agevolare l’alzata dei rotoli da mostrare ai fedeli prima dell’inizio della lettura del brano (parashah). L’oggetto più antico nella vetrina è una yad, una manina indicatrice utilizzata per seguire senza errori la lettura dei testi sacri, che è databile entro il primo venticinquennio del Seicento. Accanto è appoggiata una mappah (un rettangolo di stoffa da porre sulla pergamena nell’intervallo della lettura tra un brano e l’altro), in raso rosso ricamato con due grandi vasi ansati colmi di fiori, in oro filato o lamellare e in seta policroma, databile all’inizio del XVIII secolo. A fianco sono posti la fascia e il meil firmati da Lea Gallico nel 1747, ambedue di altissimo livello.
Nella vetrina centrale sono anche esposti una coppia di rimmonim e una atarah, eseguiti a Venezia nel 1717 e poi donati alla Scuola Levantina, progettati nella classica struttura a torre a più piani, con decorazioni fitomorfe, cartigli, gruppi di strumenti musicali e mazzi di fiori. Nella quarta vetrina a sinistra sono raccolti altri oggetti sinagogali: sono importanti la corona della seconda metà del Settecento, appartenuta alla confraternita Mattir Assurim, che reca l’immagine di un uccellino che fugge dalla gabbia, e una coppia di rimmonim con la relativa corona di manifattura veronese della fine del Seicento.
La vetrina più importante per la storia degli arredi cerimoniali fiorentini (2 D) è quella che accoglie un rimmon, databile intorno agli anni ottanta del Cinquecento, cioè ad anni vicini alla fondazione del Ghetto. È uno dei più antichi oggetti cerimoniali tra quelli rimasti in Italia; recava in origine una scritta incisa sul gambo, ora non più leggibile, che rivelava probabilmente il nome del committente. In forma di piccolo tempietto con calotta e colonnine laterali, si ispira alla cupola del Duomo fiorentino. Nella stessa vetrina è contenuto un altro pinnacolo, eseguito da Francesco Caglieri nel 1731/32, per la Scuola Italiana.

Il secondo piano

La seconda sala al secondo piano del Museo è dedicata agli oggetti di devozione privata, molti dei quali sono doni di famiglie ebraiche che hanno voluto così testimoniare il proprio attaccamento alla Comunità.
Il simbolo di questa generosità è rappresentata dalla figura del Cavalier David Levi, il cui ritratto, eseguito dal famoso pittore fiorentino Antonio Ciseri nel 1853, apre l’esposizione; lasciò scritta nel suo testamento la volontà di devolvere il patrimonio personale per finanziare la costruzione del nuovo Tempio. La stessa stanza raccoglie alcuni oggetti e disegni che riassumono brevemente le origini della Comunità Ebraica fiorentina. Se il cavalier David Levi è il simbolo per eccellenza dell’ebraismo italiano,
il nucleo più influente fu costituito da ebrei di origine sefardita, originari della Spagna e dei paesi arabi. Gli oggetti, che illustrano l’altra radice della Comunità Ebraica fiorentina, sono tre rare cinture matrimoniali marocchine dell’inizio del XX in seta policroma, con molteplici motivi diversi tra di loro che si susseguono lungo tutta la loro estensione, e da alcuni disegni di un anonimo artista ottocentesco con teste di giovani e vecchi ebrei cinti dal turbante. Le cinture sono state esposte in quella che era in origine la cassaforte del Tempio, dove si conservavano gli oggetti cerimoniali, quando erano riposti dopo l’uso. Nella terza grande sala sono stati esposti arredi di devozione domestica, significativi per illustrare i momenti più importanti della vita (nascita, matrimonio, maggiorità religiosa) e delle festività religiose, con arredi di uso personale o domestico organizzati per tipologia e in base alle diverse occasioni. La ritualità familiare ha un grande rilievo nella religione ebraica. Molti dei seicentotrenta precetti (mitzvoth), che ciascun ebreo è obbligato a seguire, sono messi in pratica nella vita quotidiana. Molti degli oggetti esposti nel museo seguono la storia di una importante famiglia fiorentina, la famiglia Ambron-Errera, le cui vicende sono qui testimoniate. Il matrimonio ebraico si divide in due parti: il fidanzamento (kiddushin), in cui si stabilisce un impegno tra le due parti, e il matrimonio (nissuin), a seguito del quale comincia la coabitazione. Il patto tra marito e moglie è sancito mediante un documento, detto ketubbah, firmato dagli sposi e dai testimoni, nel quale si stabilisce anche la dote. È uso decorare la ketubbah che, soprattutto in Italia, a partire dal XVI secolo era arricchita con motivi di architetture, di fiori, di figure umane, di animali, oppure da interi brani scritti in piccolissime lettere ebraiche che creano la struttura ornamentale del disegno (micrografia): tra quelle esposte spiccano una senese del 1684, firmata da Shemuel Pisarro e Ricca Cohen, e due, rispettivamente del 1849 e del 1865, scritte e decorate in occasione del matrimonio di componenti della famiglia Ambron. Era uso che la sposa offrisse in dono il talled ricamato (il mantello rituale), che lo sposo indossava il giorno delle nozze, e un libro di tefilloth, cioè per le preghiere di tutti i giorni, sui cui piatti erano rappresentati stemmi parlanti (non era permesso agli ebrei di avere titoli nobiliari), ovvero emblemi che riproducono, attraverso simboli, i cognomi delle famiglie che si univano. Prima della cerimonia nuziale la sposa compie un bagno rituale, in occasione del quale gli ebrei sefarditi usavano decorare un asciugamano con ricchi ricami. Raro è un asciugamani in cotone ricamato d’oro, di manifattura turca del XX secolo. Nella stessa vetrina (1 S) sono esposti alcuni sacchetti da confetti della fine dell’Ottocento, uno dei quali con l’indicazione della ditta che li produceva, Doney, una delle più famose pasticcerie fiorentine, e due fazzoletti ricamati per la sposa, ambedue appartenuti a donne della famiglia Ambron. Era tradizione che la sposa ricamasse per sé un fazzoletto con le proprie iniziali. Nella vetrina centrale è esposto un bacile dove, secondo un’usanza esclusivamente fiorentina, si rompeva con un martello il bicchiere nuziale (vetrina 1 C). Lo splendido bacile è stato eseguito da un anonimo argentiere fiorentino nel 1662 e inizialmente usato dalla Comunità per la festa di Pesach, come indica l’iscrizione sopra impressa.
Altri oggetti presenti nella sala sono connessi alla nascita: la nascita di un bambino è sempre un momento di gioia ma anche di preoccupazione, soprattutto in epoche più lontane, quando la mortalità infantile era molto alta. Si era affermato l’uso di appendere sopra la culla un amuleto, che poteva essere un astuccio di argento, detto shaddaj (Onnipotente), con all’interno una preghiera scritta su una piccola pergamena.Nel museo sono esposti numerosi amuleti da culla di varia epoca (vetrina 2 C). I più antichi risalgono al XVIII secolo, in filigrana e in argento, di manifattura veneziana, altri sono piemontesi e genovesi. Sono veneziani anche due amuleti della seconda metà del ’700, di forma grossolanamente romboidale, sui quali sono applicati simboli delTempio, come il candelabro a sette braccia e le tavole della Legge, e del Gran Sacerdote, come il cappello a due punte. A otto giorni dalla nascita i maschi sono circoncisi, in ricordo del patto tra il Signore e Abramo.A seguito di questo atto, il bambino entra a far parte della collettività ebraica e la cerimonia è celebrata con la partecipazione della comunità intera. La circoncisione (milah) è eseguita da un circoncisore (mohel), che ha avuto una preparazione apposita sia dal punto di vista chirurgico, sia rituale. In passato, egli possedeva il suo corredo di strumenti che potevano essere molto semplici o in argento inciso e cesellato. Strumenti da circoncisione in argento della seconda metà del XVIII secolo, provenienti da Ferrara (vetrina 2 S), rappresentano un gruppo non omogeneo ma interessante.Recano tutti una scritta con frasi tratte dallaTorah e dai Profeti che si riferiscono al patto dell’alleanza. Uno apparteneva a Josef Osimo, un altro, datato 1806/08, aYehuda Bemporad. Il bambino, vestito con un abitino bianco e talvolta con le spalle coperte da un piccolo talled, è tenuto sulle ginocchia da un parente o da un amico scelto dai genitori (sandak). Egli sedeva su di una sedia molto alta, come quella qui esposta della seconda metà dell’Ottocento, per agevolare il compito del mohel durante la breve operazione. Per l’occasione si confezionava per il neonato un abito di un certo pregio.Quello esposto appartiene agli ultimi anni del secolo XIX ed è in organdis con bordature di merletto e nastri in gros. Le fasce bianche, utilizzate il giorno della circoncisione e poi donate alla sinagoga, sono testimoniate da esemplari di vari periodi, il più antico dei quali risale all’inizio del XVII secolo (vetrina 2 S). Alla fine della cerimonia è imposto il nome al bambino. Le bambine ricevono il nome dopo trenta giorni dalla nascita, in occasione della presentazione al Tempio. Una settimana dopo il compimento del tredicesimo anno i maschi diventano adulti a tutti gli effetti, momento che è celebrato da una solenne cerimonia (Bar mitzvah), in cui i ragazzi leggono pubblicamente nella sinagoga un brano della Torah, il Pentateuco. Da questo momento hanno le responsabilità, i diritti e i doveri che competono ai componenti della Comunità, sono parte attiva nel minyan, ovvero il numero minimo di dieci uomini ebrei adulti, davanti ai quali è possibile recitare alcune preghiere e leggere pubblicamente la Torah, hanno l’obbligo di indossare i filatteri (tefillin) e di adempiere alle mitzvoth, cioè ai precetti che regolano la vita ebraica, Sia le donne che gli uomini possedevano libri di preghiere, dove usavano annotare gli eventi lieti o tristi che riguardavano la famiglia, e che si trasmettevano di generazione in generazione. Solamente nel corso del Novecento per le bambine è invalsa una cerimonia analoga, (Bath mitzvat) ma meno significativa, dal momento che le donne non hanno alcun ruolo nella celebrazione delle pubbliche preghiere.
Tra le festività più importanti spicca il Sabato (Shabbat), l’unica festa che è stata espressamente comandata dalla Bibbia (Torah), nel quarto dei Dieci Comandamenti. Al tramonto del sole del venerdì la padrona di casa accende due candele, che servono per la sera. Si usano due candelieri oppure una lampada circolare, che contiene olio, con sette beccucci nei quali è inserito uno stoppino. I candelieri esposti sono veneziani del secondo quarto del XIX secolo,ma non presentano alcuna caratteristica distintiva (vetrina 4 C). Spesso oggetti di uso comune erano utilizzati tradizionalmente all’interno delle famiglie esclusivamente per le cerimonie, uso che si tramandava di generazione in generazione. I tre pasti sabbatici sono preparati in precedenza. La tavola, coperta da preziose tovaglie, è apparecchiata con il calice per la benedizione del vino (kiddush), che santifica la festa, e con un vassoio, che contiene due pani interi a forma di treccia, preferibilmente fatti in casa (challoth), in ricordo della doppia porzione di manna che i figli di Israele raccoglievano il venerdì nel deserto. Il piatto, con scritte e simboli riferiti alla festa, può essere in ceramica, in porcellana o in argento. I componenti maschi della famiglia possiedono un calice prezioso, spesso d’argento.
Non in tutte le feste il cerimoniale prevede l’uso di particolari oggetti. Delle tre grandi ricorrenze liete, che coincidono con i momenti importanti dell’anno agricolo, la Pasqua (Pesach) (che ricorda la liberazione dalla schiavitù d’Egitto), Shavuot (in ricordo della consegna delle tavole della Legge al popolo ebraico) e Sukkot (la festa delle capanne, che ricorda il soggiorno di quarant’anni del popolo ebraico nel deserto, dopo che fu liberato dalla schiavitù d’Egitto), solo la prima prevede una complessa ritualità. Le prime due sere (in Israele, solamente la prima) le famiglie e si riuniscono per una cena, che inizia con la lettura della Haggadah (letteralmente “narrazione”) in cui sono raccolti brani tratti dalla letteratura biblica e post biblica e un rituale di preghiera in cui si racconta e si discute secondo un ordine prestabilito (seder) l’esodo dall’Egitto. Pesach è il simbolo della libertà o delle libertà in tutte le epoche. Il seder è accompagnato da una serie di cibi rituali e memoriali (che ricordano le gioie e i dolori che colpirono il popolo ebraico durante la schiavitù in Egitto e durante l’esodo), accomodati su un vassoio o entro un cesto: il pane azzimo (matza), in ricordo del fatto che gli ebrei in fuga non ebbero il tempo di far lievitare il pane, il vino, simbolo di gioia e dei frutti della terra, l’erba amara (maror) intinta nell’aceto, in ricordo delle sofferenze subite durante la schiavitù, una composta di frutta (haroseth), simbolo della malta usata dagli ebrei schiavi per costruire gli edifici degli egiziani, l’uovo, in segno di lutto per i primogeniti egiziani morti a causa di una delle piaghe inviate dal Signore per costringere il Faraone a lasciare liberi gli ebrei,ma anche segno di eternità. Il vassoio è coperto da una tovaglia ricamata. A questo uso era probabilmente destinata la tovaglia circolare in velluto ricamato in fili dorati ritorti e lamellari, paillettes e canutiglia (vetrina 3 S). Possono essere usati normali vassoi oppure piatti eseguiti appositamente per quella ricorrenza, nei quali sono ricavate piccole nicchie per accogliere i cibi; una brocca, un bacile e un asciugamano, utilizzati per il lavaggio delle mani degli uomini durante il seder, fanno parte del complesso cerimoniale. Il capodanno (Rosh ha-Shanah), che cade fra settembre e ottobre, prevede, presso le comunità sefardite, una cena rituale dove i vari cibi (i così detti “bocconi”) rappresentano un augurio di fertilità e prosperità per tutto il popolo ebraico: fichi, zucca, finocchio, porro, bietola, datteri,melagrana, testa d’agnello e pesce. Un’altra festa, che ha ampio spazio nella ritualità domestica, è Purim, la festa delle sorti, che cade tra febbraio e marzo e che ricorda la salvezza del popolo ebraico, avvenuta ad opera della regina Ester, dalle minacce messe in atto da Hammàn, consigliere del re di Persia. La narrazione è raccolta in una lunga pergamena (Megillah Ester), spesso riccamente miniata, sulla quale ciascun ebreo segue la pubblica lettura in sinagoga.Nel museo sono esposti alcuni splendidi esemplari tra cui un rotolo con relativa custodia in argento, opera di un orafo romano dell’inizio dell’Ottocento, e una pergamena priva di custodia, eseguita in area settentrionale, disegnata a penna in un vivace linguaggio figurativo. Sono importanti anche due custodie, una in filigrana, eseguita a Venezia sul finire del Settecento, e una romana dell’inizio del secolo successivo.Dal punto di vista storico è da notare anche la megillah appartenuta al rabbino Margulies (Vetrina 4 S). Tra le feste minori, che prevedono oggetti in possesso di tutte le famiglie ebraiche, vi è Chanukkah, che cade in dicembre e che celebra la vittoriosa rivolta del popolo ebraico contro il dominio dei Seleucidi (168 a. E.V.), che volevano imporre la propria cultura ellenica e gli dei pagani. Per ricordare questo evento e la cerimonia, durata otto giorni, in cui il Tempio di Gerusalemme fu riconsacrato, si accende una lampada ad otto lumi, la cui accensione è progressiva: uno in più per ciascun giorno della durata della festa.Vi è poi un nono lume, detto shammash (servitore), che sostituisce simbolicamente gli altri nell’illuminazione della stanza. La lampada, che è generalmente posta vicino ad una finestra, può essere appesa ad una parete, oppure, nel caso sia costituita da nove bracci, appoggiata su di un tavolo. Nel museo ne è stata esposta una serie (vetrina 5 S) di diversa provenienza. Sono da segnalare alcuni frammenti di area veneziana eseguiti attorno alla fine del XVII secolo. L’esecuzione è da attribuire a botteghe che proseguirono l’attività di Giuseppe de Levis, uno dei pochi artisti ebrei che ha lavorato anche per una committenza non ebraica. Le famiglie, per tradizione, hanno dedicato oggetti di grande valore intrinseco o affettivo ad un uso cerimoniale, anche se in origine nati per altro scopo. Soprattutto nel campo dei tessili, molti arredi, ritenuti di particolare valore, sono stati trasformati valorizzandone le qualità. Nel museo è esposta una parochet, cioè una tenda che sta appesa davanti all’Aron ha-kodesh (vetrina 2 D). È probabilmente da attribuire ad una celebre ricamatrice veneziana, Lea Ottolenghi, che si è firmata nel 1695 su di una tenda assai simile dal punto di vista dell’impaginato e del programma figurativo, ora nel Jewish Museum di NewYork. La parochet fiorentina è stata modificata alla fine dell’Ottocento, per essere adattata alle maggiori dimensioni del nuovo Aron del Tempio monumentale, con l’aggiunta di un ricamo su raso nero. L’iconografia è consueta così come la scelta decorativa: una porta, delimitata dalle colonne tortili, che inquadra le Tavole della Legge e attorno cartigli che includono simboli riferiti ai Dieci Comandamenti, a luoghi santi e a festività dell’anno ebraico. Se è relativamente consueta la struttura compositiva, sono rari invece la qualità tecnica e l’adattamento del punto ungaro per dare l’effetto di un arazzo.
In un ambiente contiguo è allestita una quarta saletta per la proiezione di un filmato che introduce una piccola sezione sulla storia della Comunità negli ultimi due secoli. I documenti fotografici e archivistici presentano la vita degli ebrei fiorentini, dalla ritrovata uguaglianza dopo l’età dei ghetti, alle persecuzioni, alle leggi razziali, e alle deportazioni nei campi di sterminio, fino alla rinascita e alla ricostruzione successiva alla guerra. Attualmente gli ebrei a Firenze sono circa 800, anche se resta attiva la maggior parte delle organizzazioni. Luogo centrale è ancora il grande Tempio che, nonostante le tante calamità attraversate, non ultima l’alluvione del 1966, continua a rimanere il simbolo dell’ebraismo fiorentino.

Ripreso da: http://moked.it/firenzebraica/

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