"Ogni morte di uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell'umanità: e così non mandare mai a chiedere per chi suona una campana: essa suona per te". Questa citazione del poeta e religioso inglese John Donne mi ha sempre colpito e accompagnato dalla prima volta che la lessi sulla copertina del libro di Hemingway: "Per chi suona una campana". Una frase che all'inizio solo mi aveva colpito per la sua "bellezza" ma che con il passare degli anni mi ha segnato sempre di più fino a diventare realtà. Veramente ogni morte di uomo mi diminuisce, veramente sento un pezzettino di me che vien meno, non solo per quelle persone care che non ci sono più, non solo per i conoscenti, ma anche per gli sconosciuti e per quegli "sconosciuti ma non troppo" che sono personaggi famosi come Steve Jobs o il "Sic".
Oggi, sfogliando il giornale online di Avvenire, mi ha colpito molto la lettera al direttore e mi ha fatto riflettere. Per questo ho pensato di riproporvela, di invitarvi a "sprecare" cinque minuti del vostro tempo per leggere queste poche righe. Che possano regalare anche a voi un momento di feconda riflessione.
Marco e la provvidenza speciale
Caro direttore, sono un romagnolo e non posso tacere dopo quanto si è detto
sui giovani e sulla velocità. Sono un romagnolo e non sono potuto andare al
funerale del bambino più veloce del mondo. Per mestiere ho visto molti funerali
di bambini, ma non questo. Ho saputo della sua morte da YouTube. Trentotto anni
fa, il 20 maggio del 1973, mentre nell’aia correvo come un matto dietro alle
galline di mia nonna, si disputava a Monza la gara delle 250. Improvvisamente
dalla radio della Cinquecento uscì la notizia della morte di Renzo Pasolini, un
altro motociclista romagnolo. Il "Paso" era partito come un pazzo,
alla prima curva era in testa davanti a tutti, compreso l’asso finlandese Jarno
Saarineen. Cadde rimanendo in pista, Saarineen gli finì addosso. Poi
l’ammucchiata di bolidi gementi. Pasolini morì, Saarineen venne decapitato
dalle ruote di un sopravvenente. Il funerale a Rimini. Arrivavo appena alla
bara alzata sul catafalco; quelle scarpe stranamente lucide ed eleganti puntate
in alto, e quel casco vuoto lì di fianco. Pasolini aveva gli occhiali scuri, tristi come quelli di Pier Paolo, l’omonimo poeta anche lui schiacciato da
ruote. Il "Paso" certamente era un poeta senza parole, malinconico di
tutti i secondi posti dietro a Giacomo Agostini. Marco, "Sic", è
morto nella gara dopo un secondo posto. Non ha lasciato andare la moto, è morto
in sella, come un cavaliere col suo destriero davanti al baratro. Pasolini e
Simoncelli sono stati forse traditi dalla foga smisurata di arrivare più in
alto.
Romagnoli di blasone non eccelso, ma d’infinita generosità e talento. In questi giorni non avrei voluto sentir dire «fermiamo le corse», oppure «troppa velocità». Non avrei voluto sentir dire «non si può morire a 24 anni». Sono cose abbastanza banali. Muoiono bambini che non hanno mai avuto l’aria in faccia, senza capelli, e vene come piste segnate dagli aghi. Cosa dovrebbero dire, poi, i genitori dei quindicenni quasi fermi sul motorino o in bicicletta schiacciati dagli autobus? Il babbo abbracciava sempre Marco, prima delle gare. Tanti che perdono i figli in un sabato notte non riescono a farlo. Non credo sia questo il momento di fare l’elogio della lentezza. Le cose più sagge le ho sentite dai genitori di "Sic": Marco ha vissuto. Come candela che arde in fretta, la sua luce è stata breve, ma che luce. I suoi 24 anni valgono mille. Centinaia di foto del suo sorriso sono vive e lo resteranno. Quindi, se questa dev’essere l’occasione per fare della morale, facciamo pure l’elogio della sicurezza, ma qui in via Mazzini sotto casa, ora. Sistemia-
mo l’asfalto
con quelle buche che come mine fanno saltare moto e bici, attrezziamo ciclabili
vere. E poi "tolleranza zero" per alcol e droghe in chi guida. Questo
vorrei sentir dire quando muore un centauro di 24 anni a viso scoperto. Non
occorre fermare un bel niente; abbiamo bisogno anche di questi miti non per
imitarne l’imprudenza o la sfortuna, ma per trarne la voglia di vivere e il
coraggio di andare sulla strada a incontrare la vita, a sorridergli in faccia .
Dicono che Simoncelli amasse Leopardi (…pria che l’erbe inaridisse il verno…) ,
abbiamo evocato Pasolini. Bene, scomodiamo anche un poeta come Shakespeare:
«C’è una provvidenza speciale nella morte di un passero. Se è ora, non sarà
domani. Se non sarà domani, sarà ora… essere pronti è tutto. Poiché nessun uomo
sa qualcosa di ciò che lascia, che importa lasciare prima del tempo. Sia così».
Come Amleto, bisogna morire per dimostrare di aver vissuto. Anche quando
abbiamo un casco in mano, dentro non si vede ma c’è un teschio, come nella
tragedia. Marco è morto una volta soltanto. Meglio una domenica a Sepang che un
martedì in Italia sotto il fango. O in una stanza lentamente con un monitor
acceso. È stato ora e non sarà domani. La terra ti sia lieve, se riesce a
starti dietro, Marco.
Gabriele Bronzetti, Bologna
Ho amici medici e so che essere medico, come lei è, caro
dottor Bronzetti, non significa solo auscultare e tastare l’umanità, ma
frequentarne le fragilità e gli scoramenti e scovare in essi straordinaria
normalità, tenere e rigorose dedizioni, sorprendenti e consolanti grandezze.
Amare la poesia, poi, credo voglia dire essere disposti a leggere la vita e la
morte senza reticenze, essere capaci di riconoscere ogni «provvidenza speciale»
e di farsi toccare nel profondo dei giorni da essa. Ho avuto e ho amici poeti
(e non necessariamente perché li abbia conosciuti personalmente tutti…) e so,
proprio come lei, che la poesia è anche medicina, piana o vertiginosa cura. Ho
amici romagnoli, dei quali conosco bene la schiettezza e la fede in Dio. Mi
piace trovare nella sua lettera in morte di un giovane campione tutta questa
amicizia. E molto di più. (n.d.b. il direttore)