"Ogni morte di uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell'umanità: e così non mandare mai a chiedere per chi suona una campana: essa suona per te". Questa citazione del poeta e religioso inglese John Donne mi ha sempre colpito e accompagnato dalla prima volta che la lessi sulla copertina del libro di Hemingway: "Per chi suona una campana". Una frase che all'inizio solo mi aveva colpito per la sua "bellezza" ma che con il passare degli anni mi ha segnato sempre di più fino a diventare realtà. Veramente ogni morte di uomo mi diminuisce, veramente sento un pezzettino di me che vien meno, non solo per quelle persone care che non ci sono più, non solo per i conoscenti, ma anche per gli sconosciuti e per quegli "sconosciuti ma non troppo" che sono personaggi famosi come Steve Jobs o il "Sic".
Oggi, sfogliando il giornale online di Avvenire, mi ha colpito molto la lettera al direttore e mi ha fatto riflettere. Per questo ho pensato di riproporvela, di invitarvi a "sprecare" cinque minuti del vostro tempo per leggere queste poche righe. Che possano regalare anche a voi un momento di feconda riflessione.
Marco e la provvidenza speciale


Romagnoli di blasone non eccelso, ma d’infinita generosità e talento. In questi giorni non avrei voluto sentir dire «fermiamo le corse», oppure «troppa velocità». Non avrei voluto sentir dire «non si può morire a 24 anni». Sono cose abbastanza banali. Muoiono bambini che non hanno mai avuto l’aria in faccia, senza capelli, e vene come piste segnate dagli aghi. Cosa dovrebbero dire, poi, i genitori dei quindicenni quasi fermi sul motorino o in bicicletta schiacciati dagli autobus? Il babbo abbracciava sempre Marco, prima delle gare. Tanti che perdono i figli in un sabato notte non riescono a farlo. Non credo sia questo il momento di fare l’elogio della lentezza. Le cose più sagge le ho sentite dai genitori di "Sic": Marco ha vissuto. Come candela che arde in fretta, la sua luce è stata breve, ma che luce. I suoi 24 anni valgono mille. Centinaia di foto del suo sorriso sono vive e lo resteranno. Quindi, se questa dev’essere l’occasione per fare della morale, facciamo pure l’elogio della sicurezza, ma qui in via Mazzini sotto casa, ora. Sistemia-

Gabriele Bronzetti, Bologna
Ho amici medici e so che essere medico, come lei è, caro
dottor Bronzetti, non significa solo auscultare e tastare l’umanità, ma
frequentarne le fragilità e gli scoramenti e scovare in essi straordinaria
normalità, tenere e rigorose dedizioni, sorprendenti e consolanti grandezze.
Amare la poesia, poi, credo voglia dire essere disposti a leggere la vita e la
morte senza reticenze, essere capaci di riconoscere ogni «provvidenza speciale»
e di farsi toccare nel profondo dei giorni da essa. Ho avuto e ho amici poeti
(e non necessariamente perché li abbia conosciuti personalmente tutti…) e so,
proprio come lei, che la poesia è anche medicina, piana o vertiginosa cura. Ho
amici romagnoli, dei quali conosco bene la schiettezza e la fede in Dio. Mi
piace trovare nella sua lettera in morte di un giovane campione tutta questa
amicizia. E molto di più. (n.d.b. il direttore)