Vi volevo proporre quest'articolo che ho trovato su ToscanaOggi online sul Card. Dalla Costa. Un testimone veramente splendido.
Un uomo santo visto da artisti diversi in tre momenti della
sua vita: ecco il contenuto della mostra proposta al Museo dell’Opera di Santa
Maria del Fiore a Firenze (8 dicembre 2011-15 aprile 2012) nel cinquantesimo
anniversario della morte del cardinale Elia Dalla Costa, arcivescovo di Firenze
dal 1931 al 1961.
L’uomo è il Servo di Dio Elia Dalla Costa, arcivescovo di
Firenze dal 1931 e Cardinale di Santa Romana Chiesa dal 1933. Gli artisti sono
due maestri fiorentini, Antonio Berti e Luciano Guarnieri, e un illustre
forestiero: l’austriaco Oskar Kokoschka. I periodi di esecuzione sono: appena
prima della Seconda Guerra Mondiale (la mezza figura in bronzo del Berti, del
1938); tre anni dopo la Guerra (il dipinto di Kokoschka, del 1948); e quattro
anni prima della morte del Cardinale (il dipinto di Guarnieri, del 1957). Gli
artisti stessi appartennero a generazioni diverse: Kokoschka nacque nel 1886;
Berti nel 1904; Guarnieri nel 1930.
Un solo uomo, dunque, e tre opere che, prese insieme, ne
danno l’immagine. Trattandosi di un esponente istituzionale del cattolicesimo
romano – un Vescovo e Principe della Chiesa – va subito ricordata l’importanza
del concetto di «immagine» applicato alla persona nel sistema di fede
cristiano. Un testo scritturale, la paolina Lettera ai Colossesi, afferma che
lo stesso Cristo «è immagine [icona, eikon] del Dio invisibile» (1,15), e
altrove l’Apostolo delle Genti estende l’idea ai credenti nel loro rapporto con
Cristo, dichiarando che «noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno
specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima
immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore»
(2Cor3,18). Analogamente un Padre della Chiesa, commentando la trasformazione
dell’aspetto fisico di Cristo sul monte Tabor – la Trasfigurazione cioè –, dice
che «con lui anche noi saremo circondati di quella luce che solo l’occhio della
fede può vedere. La nostra fisionomia spirituale si trasformerà e si modellerà
sulla sua. Come lui entreremo in una condizione stabile di trasfigurazione,
perché saremo partecipi della divina natura e verremo preparati alla vita
beata» (Atanasio Sinaita, Discorso per la Trasfigurazione del Signore, nn.
6-10).
Ecco dunque, oltre al contenuto, il senso di questa mostra
voluta da un successore di Dalla Costa, l’attuale arcivescovo di Firenze Mons.
Giuseppe Betori, e promossa dalla fabbriceria della cattedrale, l’Opera di
Santa Maria del Fiore; ecco soprattutto la ragione per cui si sia ritenuto
opportuno allestire i tre ritratti del Cardinale nel Museo dell’Opera. In Elia
Dalla Costa raffigurato da Berti, Kokoschka e Guarnieri come in molti
capolavori della collezione permanente – nei profeti scolpiti da Donatello ad
esempio – contempliamo l’essere umano trasformato dalla fede, la sua
«fisionomia spirituale» quando, in Cristo, entra «in una condizione stabile di
trasfigurazione».
Chi era allora Elia Dalla Costa? Ce lo dicono in qualche
misura i testi riportati nel catalogo: il profilo biografico preparato da un
sacerdote da lui ordinato, don Silvano Nistri; una scheda dell’avvocato Giulio
Conticelli sugli aiuti che Dalla Costa offrì agli Ebrei perseguitati dal regime
fascista; la nota stilata da Oskar Kokoschka nel 1949 per l’acquirente del suo
ritratto del Cardinale, il collezionista americano Duncan Phillips; e
l’articolo pubblicato da mons. Giuseppe De Luca su L’Osservatore Romano alla
morte del Cardinale nel 1961, qui riprodotto in copia fotostatica.
Alle già ampie informazioni fornite da questi autori è forse
opportuno aggiungere, nell’anno in cui l’Italia celebra un secolo e mezzo di
identità nazionale, che il Cardinale era anche patriota. Nato poco dopo
l’unificazione, nel 1872, fu figlio di un funzionario pubblico, Luigi Dalla
Costa, segretario comunale di Villaverla (Vicenza). Parroco di Schio durante la
Prima Guerra mondiale, si trovò poi sulla linea del fronte, dove il suo intenso
lavoro organizzativo per l’accoglienza dei feriti, dei profughi e degli orfani
gli meritò la Croce di Cavaliere della Corona d’Italia e in seguito un Diploma
di Benemerenza dal Ministero delle Terre Liberate del nord-est italiano. Come
Vescovo di Padova dal 1923 s’interessò anche del decoro e della manutenzione
dei vari cimiteri di guerra sparsi sugli altopiani della Provincia e sul Monte
Grappa.
Queste coordinate esistenziali aiutano a comprendere
l’atteggiamento severo, non solo «profetico» ma quasi battagliero, con cui
Antonio Berti lo rappresenta nel 1938, alla vigilia di una nuova guerra. Dalla
Costa, che nel 1925 e ancora nel 1931 aveva difeso l’Azione Cattolica di fonte
al regime incline a sciogliere tutti i circoli giovanili non governativi, qui
sembra guardare nel ricordo gli orrori del Primo Conflitto mentre stringe le
mani con disperata forza, pregando contra spem, contro ogni umana possibilità
di soluzione. Fu con questa energia morale che, quando Hitler visitò Firenze
con Mussolini nello stesso 1938, il Cardinale chiuse le porte e le persiani del
Palazzo arcivescovile davanti al corteo ufficiale. Berti, all’epoca
trentaquattrenne e già celebre per i suoi ritratti (di cui uno del Duce),
coglie non solo il coraggio del Cardinale, ma la fiamma spirituale che ne
alimentava l’opera.
Di dieci anni più tardi è il ritratto eseguito da Oskar Kokoschka,
il quale – secondo il ricordo scritto del suo incontro col Cardinale – vide
Dalla Costa come un anziano vigoroso, «fragile nella figura ma con una
straordinaria e intensità e un dominio sul proprio fisico». Anche l’artista,
nato nel 1886, era vecchio, e come il suo soggetto aveva conosciuto la violenza
della Prima Guerra Mondiale, rimanendo ferito sul fronte orientale nel 1917.
Sviluppatosi come artista nella Vienna del primo Novecento – nella città cioè
che vide emergere contemporaneamente Egon Schiele, Richard Strauss e Sigmund
Freud –, Kokoschka aveva assorbito e il decorativismo del connazionale Klimt e
l’influsso dei Simbolisti francesi e del russo Vassili Kandinski, e sarà fra
gli artisti denunciati dal regime nazista come «degenerati», emigrando nel 1937
in Inghilterra, dove passa gli anni della Guerra.
Questi fatti suggeriscono le coordinate stilistiche e
interpretative del ritratto che Kokoschka dipinse di Dalla Costa nel 1948. Con
la tavolozza sinfonica del Jugendstil austriaco, e con pennellate movimentate e
cariche d’ascendenza barocca, il maestro sessantaduenne apre davanti allo
spettatore ciò che, parlando altrove della sua ritrattistica, chiama «la
personalità chiusa, così piena di tensione» dei soggetti che l’interessavano.
Rimase colpito dalla spiritualità di Dalla Costa, «che persino i comunisti
considerano un santo», ma anche della sua umanità, affermando d’aver avuto
«l’emozionante esperienza di pronunciare in sua presenza tutte le mie opinioni
scettiche e profane, e la soddisfazione di sentirmi compreso da un anziano di
larghe vedute, pieno di grazia e dignità, che ha perdonato le mie manchevolezze
in nome dello spirito umanitario e dell’amore fraterno». Kokoschka – che, tre
anni prima, per aiutare i bambini bisognosi dell’Inghilterra post-bellica,
aveva diffuso migliaia di stampe di un suo disegno in cui Cristo dalla croce si
china per sfamare i piccoli – esprime ammirazione per l’Arcivescovo di Firenze
che «nelle notti invernali, travestito da laico, visita i quartieri dei più poveri
per verificare personalmente l’efficacia dell’opera dei suoi preti e
collaboratori laici nel soccorrere i piccoli e sofferenti».
L’ultimo dei tre ritratti fu dipinto quando Elia Dalla Costa
era veramente anziano – nel 1957, quando aveva 85 anni –, da un artista
giovane, Luciano Guarnieri nato nel 1930. Allievo di Annigoni, Guarnieri s’era
fatto conoscere a Firenze nel 1954 con una cartella di disegni dedicata alla
ricostruzione post-bellica di Ponte Santa Trinita; negli anni Sessanta farà
carriera negli Stati Uniti come ritrattista dei vip, sposando una donna
americana con cui torna poi a Firenze, dove produce importanti cartelle di
litografie e attira l’ammirazione della critica internazionale.
Ma nel 1957 Guarnieri era solo un ragazzo di promessa a cui
si chiedeva di ritrarre uno dei massimi eroi della storia fiorentina recente.
Adempì al compito presentando il porporato in maniera francamente «iconica»,
sopra un davanzale che sembra la base di un personaggio scolpito en buste;
forse pensava in effetti al quattrocentesco busto in terracotta policroma
raffigurante il santo predecessore di Elia Dalla Costa, l’arcivescovo Antonino
Pierozzi (in effetti il busto di sant’Antonino esiste in più copie, di cui uno
si trovava fino a qualche anno fa nell’anticamera dell’ufficio arcivescovile).
Nel suo tempo Antonino, religioso domenicano, aveva una reputazione analoga a
quella di Elia Dalla Costa, come pastore attento ai poveri e asceta, e
l’allusione visiva – se di ciò si tratta – doveva sembrare suggestiva.
L’elemento che più avvicina il ritratto del Guarnieri al
busto di sant’Antonino è una qualità interiore, meditativa, quasi passiva. Nel
caso dell’opera quattrocentesca, questa è dovuta al carattere commemorativa
dell’immagine, realizzata dopo la morte del Pierozzi nel 1459. Mezzo millennio
più tardi, il giovane Guarnieri vede l’anziano Dalla Costa in una simile luce
«commemorativa», già dal 1954 privo di effettivo potere, affiancato da un
vescovo coadiutore, Ermenegildo Florit, che lo succederà come Arcivescovo di
Firenze nel 1962. L’atleta della preghiera visto dal Berti, il principe
ecclesiastico carico di tensione pastorale del Kokoschka, qui diventa un santo
vecchio che ripassa nel silenzio gli eventi, lo sguardo ormai rivolto al Dio
che redime la storia, e al Salvatore la cui immagine il vescovo Elia portava
sul petto, Gesù Cristo.
Timothy Verdon
Direttore del Museo dell’Opera
di Santa Maria del Fiore